Senza più maestri, quale futuro ci aspetta?

Senza più maestri, quale futuro ci aspetta?

18 marzo 2019

Rimestando fra i libri ho ripreso in mano quello di un grande giornalista e scrittore nato a Vicenza nel 1907, Guido Piovene, “Viaggio in Italia”, un volume di oltre novecento pagine scritto dopo un viaggio durato ben tre anni, su e giù per la nostra penisola. Desiderate sapere quante volte e in quante righe siamo citati? Beh, in quattro-cinque. Questa era la nostra “carta d’Identità” tra il 1953 e il 1956. Oggi la realtà è naturalmente mutata. Anche se questa nostra lingua di terra tra Po e Adige, rimane ancora isolata più di un’isola.

Il risultato di decenni in cui non siamo riusciti a mettere a frutto i nostri talenti. Come nella parabola evangelica, c’é chi li ha fatti fruttare, partendo da quello che c’era. Sapendo rischiare le proprie competenze, capacità, energie come hanno fatto altre province contermini. Noi, invece, per natura o fede aspettavamo il miracolo piovuto dal cielo, ponendoci in attesa di non si sa di che cosa. E ancora siamo in sosta. Basti citare che nella nostra “povera” provincia siamo quelli che più spendono con giocate a lotterie, lotto, gratta e vinci eccetera, in cerca della dea bendata.

Fotografiamo seppur in modo riduttivo la nostra realtà storica: abbiamo avuto una “Confindustria” composta e guidata negli anni del boom da industriali del mattone che, finita la posa dei “forati” causa crisi dell’edilizia, ha dovuto emigrare a Venezia, accorpandosi con i fratelli maggiori. Nel dopo alluvione abbiamo registrato un manipolo di “prenditori” noti, più che imprenditori, che sapevano in partenza quanto era il loro profitto. Con rischio zero. Una risultante dovuta a sommatorie semplici costituite da fiuto per affari ma anche di “aiuti”, più o meno legittimi, per accaparrarsi le aree su cui insediare i manufatti. Settore che ha interessato anche i “movimenti terra” utili per riparare i danni degli eventi drammatici legati alle alluvioni. Disgrazie, ma non per tutti. Quattro conti e il gioco era fatto. Tot costo operai, tot costo area (pronta a cambiare destinazione d’uso sic), tot materiali, tot “aiutino” era il costo. Tot metri quadrati per tot lire il metro era il profitto. Nel Delta del Po intriso dalle acque correva questa battuta: “se tutti i sassi pagati e pesati sui camion fossero effettivamente finiti lungo le rive dei canali per rinforzare gli argini non ci sarebbero più i colli Euganei”. Una cascata che la smobilitazione dell’Associazione industriali da via Casalini, ha prodotto il risucchio trascinandosi dietro Confapi, Cna e altre rappresentanze imprenditoriali.

Vi è stato un momento, tra gli anni ’70 e ’80, in cui sembrava che anche il nostro Polesine avesse intravisto e imboccato la via dello sviluppo, ma poi l’orizzonte si è di nuovo annebbiato. Nella vita e nell’imprenditoria non esistono ricette magiche; per crescere, per riprendere il cammino, per ritornare a essere vivi, c’é una sola medicina, amara, quella della fatica di tutti i giorni, seguendo le indicazione che la realtà ci fornisce. Ma la domanda sorge spontanea? Chi dovrà occuparsene? Chi ha educato i giovani di oggi a mettere le mani in pasta con quel che c’é, e non con i propri stati d’animo o pensieri ed umori? Questo vale anche per le nostre future classi dirigenti imprenditoriali. Spariti i movimenti giovanili, anche nei partiti appaiono e riappaiono le stesse facce stanche, convinte che attorniandosi di neofiti, si ringiovanisca. Non rendendosi invece conto di soffrire una infermità molto più grave della vecchiaia, quella di voler rimanere eternamente giovani.

Roberto Magaraggia

Rovigo Magazine